Intervista a Manildo, il candidato del Pd in Veneto. “Non guardo i sondaggi”


LaPresse
Verso le regionali
"Noi non siamo utopisti. Ma sappiamo che il centrosinistra unito, all’interno di una coalizione molto ampia, ha tutte le carte per giocarsela fino in fondo”, parla l'ex sindaco di Treviso
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Un altro Veneto è (im)possibile. Come si fa ad affrontare una battaglia persa in partenza? “Non è vero che lo è”. Lo dicono i sondaggi. “Non vanno guardati: mettono di cattivo umore”. Lo dice la storia. “Ma la storia è fatta per essere cambiata”. E la gente, invece, che dice? “All’inizio tante pacche sulle spalle. Ringraziamenti formali: mi guardavano con l’aria del dead man walking”. Della serie, chi glielo fa fare. “Già. Invece in due mesi ho assistito a un’evoluzione radicale: atteggiamento caldo, empatico e serio da parte di chi ci sta attorno. Ovunque andiamo a trasmettere il nostro progetto politico, capiamo che sorprendere si può”. Sempre all’opposizione? “Guardiamo a queste elezioni, ma anche alla classe dirigente che verrà: la fine dell’era Zaia rende questa campagna un momento fondativo. Di grandi novità per tutti”. Eppure, dentro e fuori dalla regione, in pochi conoscono Giovanni Manildo. “Lavoriamo ogni giorno per lasciare il segno. E poi le imprese difficili sono quelle che appassionano di più. Come i sentieri di montagna in salita”.
E insomma ci crede, il candidato del centrosinistra in Veneto. “Siamo consapevoli di poter fare un buon risultato”. Non potrebbe dire altrimenti. “Demotivarsi non fa parte del mio carattere, né di quello della mia squadra. La passione dev’essere contagiosa”. E l’avvocato Manildo ne ha da vendere, su questo pochi dubbi. “Sento un’aria diversa rispetto alle altre volte: dal 2005 in poi abbiamo assistito all’erosione del voto progressista. Dal 42 al 15 per cento”. Effetto Zaiastan. In effetti, un vantaggio rispetto ai predecessori Manildo ce l’ha: più giù di così, difficile. “Ma fare politica soltanto se si ha la certezza di vincere è la negazione della politica stessa”, protesta lui. “Ci vuole buonsenso. La paralisi del Veneto, che ha perso il principio dell’alternanza democratica, è dovuta a questo atteggiamento di ineluttabilità: portatore di degrado, inefficienza amministrativa e involuzione di modelli virtuosi. Noi non siamo utopisti. Ma sappiamo che il centrosinistra unito, all’interno di una coalizione molto ampia, ha tutte le carte per giocarsela fino in fondo”.

Campo larghissimo, appunto. Tutti dentro: da Schlein a Conte, passando per Avs, Renzi e Calenda. Basterà? “Siamo a riusciti a compattarci per la regione in un modo che sul piano nazionale sembra infattibile”, ribadisce al Foglio Manildo. Sta ricevendo supporto dai leader di partito? “Certo. La segretaria del Pd l’altro giorno era con me a Padova e a Treviso. Ormai siamo d’accordo anche con Azione, il cui ruolo su Industria 4.0 non va dimenticato. E ho sentito Renzi”, da sempre punto di riferimento politico per il candidato veneto, che tuttavia è rimasto in quota dem. “Essere riformisti significa avere l’umiltà di ascoltare e fare sintesi. Come coalizione dunque rivendichiamo l’autonomia regionale, la sanità pubblica – dopo un lungo processo di privatizzazioni di fatto –, una transizione ecologica che non vada a compromettere lo sviluppo economico. Io sarò il garante del programma”. Eppure a Roma nessuno metterebbe un centesimo sul ribaltone. “Le dinamiche nazionali non mi preoccupano: il nostro è un impegno indipendente. Mi fa sorridere chi come Scanzi sostiene che la nostra vittoria è probabile quanto Gasparri nei panni del nuovo James Bond. Preferisco un altro paragone, da appassionato di tennis quale sono”. Cioè? “Se mi trovo di fronte Alcaraz, darò comunque il massimo ma so che è difficile. Contro Fognini, invece…”.
E l’Alcaraz del Veneto, alias Luca Zaia, sarà costretto al ritiro. “La sua presenza ha congelato il dibattito pubblico per decenni: d’ora in poi ci sarà un’apertura e l’occasione per tutti per parlare ai veneti con parole diverse. Anche per il centrodestra, impegnato in una successione non preparata”. Come si fa campagna elettorale senza conoscere l’avversario? “Non cambia nulla. Percepiamo incertezza tra le loro file e dobbiamo approfittarne, costruendo qualcosa che prescinde dalla competizione: il nostro peggior nemico siamo noi stessi. Chi gufa, chi rinuncia, chi non ci crede abbastanza”. Un precedente dalla sua, nello scoraggiante quadro generale, in effetti il 56enne Manildo ce l’ha: Treviso, 2013. Sfida lo sceriffo Gentilini nel suo feudo e, contro ogni previsione, vince al ballottaggio. “Le analogie ci sono”, sottolinea l’ex sindaco. “La fine di una stagione politica, la capacità di farsi portatori di un entusiasmo contagioso. Eravamo convinti che quella partita fosse contendibile e lo siamo anche oggi”. Ma la regione non è mica una città. “Lo vedremo.” Auguri.
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